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Medicina Naturale (ed.Tecniche Nuove); n°3 maggio 2007

intervista con il prof Adolfo Panfili di ritorno dalla spedizione hymalayana presso il laboratorio Piramide più alto del mondo

Il respiro dell’Everest… nella medicina ortomolecolare

La medicina ortomolecolare vola in alta quota per studiare l’invecchiamento cellulare e cogliere dagli effetti dell’ipossia elementi utili alle capacità di adattamento dell’essere umano

 

Vivere bene, vivere più a lungo, vivere meglio. Orizzonti di una medicina che intende curare l’uomo nella sua globalità, secondo un concetto di salute che non è solo as-senza di malattia, ma armonioso stato di benessere. Una condizione di equilibrio biochimico e psicosomatico in cui l’organismo umano si riconosce seguendo i principi di un vivere sano: una corretta alimentazione/idratazione, un adeguato movimento e un calibrato rapporto con l’ambiente circostante.
È questa l’anima della medicina ortomolecolare, disciplina integrativa alla medicina accademica e a quella complementare a cui il prof. Adolfo Panfili, Presidente onorario dell’A.I.M.O. (Associazione Internazionale di Medicina Ortomolecolare) insieme alla dottoressa Valeria Mangani, dedica il suo impegno in studi di livello internazionale. Definire ‘elevata’ la sua esperienza, non è solo un aggettivo, considerando l’attività svolta a 5050 metri di quota, nella Valle del Khumbu, ai piedi del versante nepalese dell’Everest, nel Laboratorio - Osservatorio Internazionale Piramide.
Gestita dal Comitato Ev-K²-CNR insieme alla Nepal Academy of Science and Technology (NAST), la Piramide ha dato vita a 520 missioni scientifiche, con la partecipazione di 220 ricercatori afferenti a 143 diverse istituzioni scientifiche pro-venienti da varie nazioni e impegnati in diversi campi di studio. Tra questi, anche la medicina e la fisiologia con test mirati agli effetti dell’ipossia sull’organismo umano e alle sue capacità di adattamento. È in quest’ottica che il dr. Panfili ha ap-portato la sua testimonianza scientifica alla terza conferenza internazionale su “Gravità e il sistema cardiovascolare”, or-ganizzata dall’I.N.R.C (Istituto Nazionale per la Ricerca Cardiovascolare) e il CSV (Centro Sperimentale Volo) Reparto Medicina Aeronautica e Spaziale presso il CNR di Roma, occasione d’incontro questa, che ci ha permesso di conoscere i ‘segreti’ della longevità fra le popolazioni che vivono alle pendici dell’Everest, chiarendo qual è il vero anti-age per l’essere umano.


D: Prof. Panfili, oggi si parla tanto di antiage, ma aldilà delle tendenze, quali sono i parametri della longevità cui la ri-cerca medica ortomolecolare fa riferimento, avvalendosi anche di studi eseguiti ad alta quota?
È ormai dimostrato dagli inizi del 1900 che vivere a quote superiori ai 3000 metri sviluppa delle risposte fisiologiche atte alla sopravvivenza all’alta quota, in particolare vi è: sensibilissimo innalzamento del numero totale di globuli rossi; notevole aumento dell’emoglobina; notevole incremento dell’eritropoietina e dell’ematocrito; progressivo adattamento finalizzato a rendere possibili sforzi ad alte quote come se si stesse al livello del mare.
Attualmente nel mondo più di 13 milioni di persone vivono ad altitudini comprese tra i 3000–5000 metri sopra il livello del mare. La Pressione Parziale di Ossigeno a queste altitudini è molto più bassa di quella riscontrabile in un ambiente normo-barico e corrisponde a 14.5 – 11% O2 rispetto al livello del mare. Residenti in alta quota mostrano usualmente oltre a ben note caratteristiche fisiologiche, maggiore longevità, aumentata vitalità e minor incidenza di malattie croniche e degenerati-ve.


D:Come si spiega questo?

All’esordio degli studi epidemiologici sugli adattamenti all’alta quota si tendeva a considerare tutto ciò come la conseguenza di migliorate condizioni ecologico-ambientali, assenza di inquinamento e minor stress sociale, ma ben presto divenne chiaro il fatto che fosse l’ipossia stessa a stimolare una serie di adattamenti cellulari confluenti in un netto incremento del livello di salute.


D: Dove ha constatato maggiormente queste caratteristiche?

In regioni montane come quelle dell’Hindu Kush – Karakorum – Himalaya (HKKH), in Nepal, Tibet e Bhutan, dove l’alta lon-gevità è intesa non solo in termini di sopravvivenza, ma di attivo benessere (negli altipiani del Khumbu alla base dell’Everest, non è difficile trovare trisnonni che ancora lavorano nei campi). Noi come associazione di Medicina Ortomolecolare, ci siamo da tempo impegnati nello studio dei parametri che regolano l’invecchiamento cellulare e che sono riconducibili a tre fattori principali: alimentazione, idratazione e quota. Quando parliamo di quota parliamo di popolazioni che sono abituate a vivere in un ambiente dove la saturazione d’ossigeno è più bassa, perciò l’organismo attraverso l’evoluzione e l’adattamento ha finito per creare una performance ambientale ideale dal punto di vista cardiovascolare. Un fenomeno, quello della carenza di ossigeno, che si verifica naturalmente in alta montagna, creando quindi le condizioni di un vero e proprio ‘laboratorio’ di ricerca medica, con volontari sani, in cui possono essere seguite 24 ore al giorno le con-seguenze dell’ipossia sul corpo umano come fenomeni alla base dell’invecchiamento.


D: Perché è così importante studiare nuovi metodi per prevenire e curare l’ipossia?

Ipossia è sinonimo di vecchiaia... In un certo senso se si riesce a comprendere bene il meccanismo fisiopatologico dell’ipossia si può riuscire ad affinare meglio la conoscenza scientifica sull’ageing.
Tutti sappiamo che l’ossigeno è fondamentale per la vita.
Nessuna cellula potrebbe sopravvivere a lungo senza il giusto apporto di ossigeno, pochi minuti di assenza di ossigeno possono determinare un danno grave o addirittura irreparabile a carico del cervello.
L’ipossia gioca un ruolo importante nella patogenesi delle maggiori cause di mortalità quali l’ischemia cerebrale, miocar-dica, le patologie cardiache e polmonari croniche, il cancro e l’invecchiamento in generale. L’ipossia tra l’altro è una con-dizione presente nelle persone affette da obesità grave, diabete e sindrome metabolica.
In questa ricerca sono stato sostenuto e incoraggiato da un ecologista e alpinista DOC come l’On. Gianni Alemanno che ha sempre avuto molto a cuore la tutela dell’ambiente e il rispetto dell’individuo nella sua totalità e fervido assertore della Medicina Ortomolecolare, al punto tale da sottoporsi anche lui come cavia a questi studi scientifici nel corso delle spedi-zioni hymalayane (come succede sugli altopiani del Khumbu, circostanti la Piramide del CNR, luogo dei nostri studi). So-no partito con la mia equipe dall’evidenza scientifica che chi vive in alta quota sviluppa sistemi di sopravvivenza alla ca-renza d’ossigeno superiore a chi vive a livello del mare adattandosi a sfruttare al meglio il poco ossigeno disponibile. Contrariamente a chi è nato a livello del mare, i Tibetani nati e residenti in alta quota sembrano avere una elevatissima concentrazione muscolare di una particolare proteina (mioglobina), le cui funzioni, non ancora completamente note, pos-sono essere genericamente legate al suo ruolo di serbatoio per l’ossigeno.
La mioglobina servirebbe a rendere immediatamente disponibile l’ossigeno nella transizione riposo-lavoro. Questa ipotesi potrebbe essere confermata dal rilievo di una cinetica del riaggiustamento del consumo di ossigeno all’inizio di esercizi sottomassimali più rapida nei Tibetani di alta quota che nei Nepalesi. Alcune popolazioni tibetane e nepalesi come i portatori di razza Sherpa e Balti che non sembrano essere penalizzati dall’ipossia, sono riuscite geneticamente nel corso delle generazioni ad adattarsi a questa esigenza di attivare e perfezionare per sopravvivere una serie di meccanismi antiossidativi più efficaci, come per esempio l’HIF-1 (Hypo-xia Inducible Factor) una particolare proteina capace di potenziare l’abilità dell’organismo nell’utilizzare l’ossigeno.
È questo fattore che potrebbe essere la chiave per antagonizzare i processi d’invecchiamento.


D: Respirare ‘l’aria dell’Everest’, rappresenta il vero-antiage?

Certo che a quelle latitudini la depressione, i tumori, le malattie degenerative sono praticamente sconosciute. Possiamo dire che se si respira meglio si invecchia di meno, ma oltre al fattore quota c’è da considerare anche l’alimentazione e l’attività fisica potentissimi antiageing e antidepressivi. Recentemente, sul British Journal of Psychiatry sono stati pubblicati i risultati di uno studio controllato su una novantina di anziani, tutti in trattamento farmacologico antidepressivo, di cui la metà ha seguito un programma di attività fisica per 10 set-timane e l’altra metà un equivalente programma di educazione alla salute. Entrambi i gruppi hanno avuto un miglioramento, ma quello che ha seguito l’attività fisica ha presentato un miglioramento del 55% contro il 33% dell’altro gruppo di controllo.


D: Questo lavoro fa seguito ad altri studi tutti sulla stessa linea. Come si spiega? È pura suggestione?

È spiegabile con la dimostrazione che l’attività muscolare aumenta la produzione cerebrale di serotonina e mette in circolazione sostanze che vengono assorbite dal cervello, come l’anandamide e l’Igf-1: la prima produce un effetto di rilassato benessere poiché si lega ai recettori della cannabis presenti nel cervello, la seconda sostanza stimola la produzione di BDNF, un fattore di crescita nervoso con potente attività antidepressiva. Verdure, ricche di acido folico e alimenti come i formaggi di latte di yak sono ricchi di acidi grassi polinsaturi omega-3, sono il perno di un’alimentazione antidepressiva. Dall’acido folico si forma nel nostro cervello un composto, la S-adenosil-metionina, che ha dimostrate attività antide-pressive. Nella carne di Yak e nei suoi prodotti caseari si trovano in abbondanza acidi grassi omega-3 a catena lunga.
Ci sono evidenze che nella depressione e in altri disturbi psichiatrici, l’equilibrio tra omega-6 e omega-3 viene altera-to, con un deficit di questi ultimi. La prima prova del ruolo antidepressivo dei cibi caratterizzati da un equilibrato rapporto tra omega-6 e omega-3 (come il pesce, lo yak, nda) risale all’ottobre 2002 su Archives of General Psychiatry.


D: Tornando ai prodotti autoctoni antinvecchiamento, come i formaggi tipici di Yak, cosa si è evidenziato?

Questi cibi sono preparati in maniera tale da presentare un’elevata quantità di probiotici e la longevità è risaputo essere associata all’assunzione di una grande quantità di probiotici. Altro elemento determinante sulla longevità, che merita senz’altro studi ben più approfonditi, è l’acqua.
Le acque della valle del Khumbu presentano particolari caratteristiche di Cluster talmente ridotte da renderle capaci di transitare attraverso i canali cellulari con estrema agilità, svolgendo un vero e proprio meccanismo di lavaggio endocellu-lare, consentendo la rimozione costante di scorie e tossine dai tessuti interstiziali e dagli organi, mantenendo efficaci le funzioni fisiologiche di base e rallentando i processi di senescenza.


D:Ma, per non invecchiare non si può pensare di andare a vivere tutti sull’Everest…

Ovviamente no, però se riuscissimo a portare la ‘montagna a Maometto e non Maometto alla montagna’ potremmo aumen-tare la capacità di rendere immediatamente disponibile l’ossigeno e perciò rallentare l’invecchiamento.


D:Caratteristica questa delle tribù più longeve che si sono adattate a vivere in condizioni di estrema rarefazione d’aria?

Nei muscoli dei Tibetani nati e residenti in alta quota è presente, in concentrazione molto più elevata degli individui che da generazioni vivono SLM, una particolare proteina della famiglia del glutatione, con spiccate proprietà antiossidanti. Tale pro-teina denominata ‘Glutatione Perossidasi’ proteggerebbe le strutture cellulari dai danni provocati dalla formazione obbligata di radicali liberi.
La glutatione-perossidasi, enzima geneticamente più rappresentato in questi individui, consente loro di difendersi meglio nei confronti dello stress ossidativo. Attraverso generazioni il DNA di questi individui è riuscito ad adattarsi alla carenza di oppor-tune saturazioni di ossigeno, producendo con più facilità molecole endogene come i gruppi sulfidrilici, l’acido alfalipoico, il co-enzima Q10... tutte sostanze normalmente prescritte come prodotti antinvecchiamento, antistress... Natura Docet!


D:Questo significa che le cellule hanno insite delle potenziali difese antiossidanti che possono essere esaltate in cer-te situazioni e in un certo senso anche ‘allenate’?

È proprio lavorando in questa direzione che, in occasione dell’ascesa ai campi base dell’Everest lo scorso anno e in prepa-razione di quella che faremo nel 2008, si è presa in considerazione con il Centro di Medicina Aeronautica e Spaziale, l’importanza di portare avanti un progetto di ‘allenamento’ in ipossia sviluppato in camera ipobarica.


D: Di cosa si tratta?

Normalmente usata nella valutazione e nella preparazione di piloti e astronauti, abbiamo pensato di utilizzare questa came-ra in quanto, secondo studi avvalorati dalla Cina e dalla Russia, emerge che l’allenamento intervallare ipossico, cioè svolto a intervalli regolari di salita e discesa in alta quota e perciò con diminuzione e aumento della saturazione d’ossigeno, riesce a stimolare adattamenti uguali o analoghi a quelli delle popolazioni che vivono in alta quota.


D: Ed è lì, a 5050 metri di quota, dove si trova la Piramide del CNR che il suo interesse scientifico l’ha spinta, e non so-lo. Ad agosto sarà a Cape Kennedy alla NASA, per seguire studi abbinati anche con lo spazio. Ce ne vuole parlare?

Il modello di ricerca che abbiamo appaiato a quello della Piramide del CNR è uno studio in gravità relativa e in assenza di gravità che stiamo facendo con la NASA per verificare le capacità adattative dell’organismo.
In quella situazione verranno studiate anche le capacità posturali nei disabili: un paraplegico può in rarefazione di gravità riuscire a performare delle attitudini deambulative che non riesce a riattivare in condizioni di normale gravità. Questo può facilitare l’imprinting di nuovi circuiti neuronali, il che fa pensare che in un prossimo futuro la rarefazione d’aria, l’assenza di gravità e la deprivazione d’ossigeno ben disciplinata, potranno fare la differenza nel recupero cellulare.


D: A cosa si deve l’abbinamento delle ricerche?

Abbiamo cercato di cogliere dalla realtà dell’alta quota e dello spazio elementi utili per identificare lo stress ossidativo e pro-vare come l’essere umano riesce ad adattarsi a questo e a sopravvivere.


D:Cosa rappresenta in medicina l’allenamento ipossico?

L’allenamento ipossico è una sfida per l’organismo a utilizzare nuove fonti d’energia. Finalizzato non a sviluppare partico-lari qualità fisiche ma principalmente capacità di adattamento, è utile non solamente per astronauti, piloti e alpinisti, ma in generale per tutti coloro che possono trarne un vantaggio. Con l’ipossia è possibile agire provocando modificazioni fisio-logiche come l’aumento della sintesi di eritropoietina, quella che assumevano come farmaco (EPO) alcuni ciclisti (inutil-mente, perché il corpo umano resiste producendo fisiologicamente l’eritropoietina). È possibile migliorare indici biochimici alterati e avere un sensibile miglioramento sulle condizioni allergiche e sulla capacità di difesa immunitaria. È un metodo che deve essere diffuso. Ho anche brevettato un sistema che consente di realizzare questo tipo di allenamento senza do-ver utilizzare strumenti fissi e senza dover andare in camera ipobarica.

 

D: Quali i benefici per la salute?

L’allenamento intervallare ipossico può servire per la prevenzione, la riabilitazione e il trattamento di molte malattie. È stata dimostrata l’efficacia su pazienti affetti da patologie cardiovascolari, polmonari croniche, artrite reumatoide, disturbi gineco-logici.
Nel controllo dell’obesità uno studio ha consentito di valutare che soggetti allenati in ambiente ipossico riescono a migliorare l’increzione di una sostanza ormonale, la Leptina, che permette di controllare meglio a livello ipotalamico l’appetito.
Si riduce l’invecchiamento arterosclerotico, si aprono più circuiti vascolari e, a livello pelvico possono essere migliorate le funzioni erettili. Migliora l’impatto dello stress sul sistema adrenergico e sul sistema cardiovascolare migliora la resistenza capillare periferica, diminuendo anche la pressione arteriosa e la frequenza cardiaca e tutto questo senza farmaci.
Su quali prospettive si sta concentrando la ricerca medica e quale futuro avrà l’allenamento intervallare ipossi-co?
L’HT (Hypoxic Training), come dimostrano studi russi, americani e finlandesi, consente di aumentare la produzione della proteina NGFIA, fattore di accrescimento nervoso. Molto probabilmente l’ipossia potrà essere utilizzata per stimolare la riparazione di lesioni sulle fibre nervose.
E ancora, l’attività ipossica come antidepressivo (secondo il sopraccitato studio pubblicato sul British Journal of Psychiatry), che dimostra la capacità dell’allenamento ipossico di stimolare il rilascio della dopamina, neurotrasmettitore che svolge naturale attività antidepressiva.
L’allenamento intervallare ipossico quindi consente risultati eccezionali. Anche se nella nostra realtà resta ancora molto da fare, l’allenamento ipossico condotto sotto controllo medico può diventare un sistema da utilizzarsi con regolarità. Senza dover ricorrere a miscele di gas appositamente preparate e pressurizzate come in camera ipobarica, si può pensa-re di utilizzare respiratori ipossici che consentono di ottenere adattamenti respiratori in grado di ottimizzare le capacità vitali dell’organismo.